Il giallo politico dell’estate. L’incontro Draghi-D’Alema, poi l’agguato a Conte (di Marco Travaglio)

Esce oggi. In tutte le edicole e librerie il nuovo volume di Marco Travaglio (prefato da Barbara Spinelli, Paperfirst): “Il giallo politico dell’estate”. Ne anticipiamo due brani

(di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Inizio di dicembre del 2020, interno giorno. Siamo a Roma, quartiere Parioli, nella bella casa semiabbandonata di Mario Draghi, che con la moglie vive ormai stabilmente a Città della Pieve. Quel giorno è lì perché deve incontrare Massimo D’Alema, ex segretario del Pds, ex presidente dei Ds e del Consiglio, ex ministro degli Esteri, candidato non eletto in Leu nel 2018, ora dedito ad attività internazionali come presidente dell’advisory board di Ernst & Young, consulente del premier albanese Edi Rama e di alcuni think tank vicini alla Silk Road Initiative del governo cinese.

Da cofondatore di Articolo Uno con Bersani e Speranza, è molto ascoltato da Zingaretti e Bettini, ma anche da Conte, condividendo con loro il sostegno al progetto giallorosa. Draghi e D’Alema non si sono mai amati, anzi sul caso Telecom del 1999 si sono apertamente scontrati. Ogni tanto si sentono per fare quattro chiacchiere di politica e di economia. Ma non si vedono da molti anni.

All’inizio del Conte-2, l’allora governatore della Bce aveva chiamato l’ex premier per raccomandargli di dare una mano al ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Questa volta però gli ha chiesto improvvisamente di vedersi a quattr’occhi a casa sua. Con una certa urgenza. Lo fa accomodare nel suo salotto. E inizia a parlare di politica. Le versioni dei due protagonisti divergono.

Secondo D’Alema, Draghi gli parla male del governo Conte. Non ha gradito che nell’estate del 2019 il premier l’abbia candidato a commissario europeo, quasi a voler usare il suo nome. Ma soprattutto è convinto che il suo esecutivo sia destinato a fallire e occorra pensare a un’alternativa. E, visto che è lui a sondare il suo ospite, è implicito che per la successione pensi a se stesso. D’Alema – è sempre la sua versione, raccontata a pochissimi amici – lo contraddice: ritiene che a Conte non ci siano alternative e che un governo di larghe intese con questa destra sarebbe una sciagura. Anche perché il premier si è conquistato un ampio consenso sia in Italia sia a livello internazionale (vedi Recovery). Aggiunge che il miglior contributo che Draghi può offrire all’Italia è quello di aiutare il governo Conte e attendere serenamente il rush finale della corsa al Colle, dove sarebbe il miglior candidato possibile.

Il banchiere fa notare che al Quirinale non ci si candida, poi cambia discorso. D’Alema esce da casa sua con la ferma convinzione che Draghi stia scaldando i motori non per succedere a Mattarella, ma a Conte. O che almeno si sia rimesso in movimento e stia riallacciando vecchi e nuovi rapporti, proprio mentre è partito l’assalto finale di Renzi e dei potentati retrostanti al Conte-2 con i pretesti più svariati. Tant’è che, allarmato, il 19 dicembre D’Alema rilascia un’intervista al Corriere: “Conte non ha alternative. La destra italiana non ha oggi la maturità per governare”. Quanto ai 5 Stelle, “quando prendono 3-4 milioni di voti alla sinistra e vincono al Sud sulla base di un programma di redistribuzione del reddito, di destra non sembrano”.

La versione di Draghi – anch’essa affidata a pochi fedelissimi – è molto più sfumata: in linea col personaggio. Sì, forse è stato lui a chiamare D’Alema, ma non ricorda di preciso. Si erano sentiti tempo prima per una conferenza per Ernst & Young, che aveva declinato, e si erano ripromessi di rivedersi. L’ha incontrato a casa sua ai primi di dicembre. Ma di politica s’è parlato solo di sfuggita, niente di che. Poi s’è discusso di varie cose, soprattutto di Cina. Del resto lui non ne voleva sapere di fare il premier e non ci pensava proprio a sostituire Conte. Anzi, quando Renzi lo chiamava per tirarlo dentro, lui rispondeva di lasciarlo in pace e di non nominare il suo nome invano. E quando a gennaio gli riferirono che il Rignanese diceva in giro che lui “smaniava” per andare a Palazzo Chigi, oppure al Mef, avvertì subito Mattarella di non dargli retta: se lui smaniava, era per non fare il premier, non certo per farlo.

Già, perché Mattarella è così schivo e corretto che mai gli aveva prospettato, nemmeno alla lontana a titolo di sondaggio, una simile ipotesi. Né a dicembre, né a gennaio. Neanche dopo il ritiro delle ministre renziane dal governo. Neppure dopo le dimissioni di Conte. Anche se tutti, da Renzi a Berlusconi, da Giorgetti a Salvini, da Bisignani all’intera stampa italiana, lo invocavano come il Salvatore della Patria.

Lui per un attimo era stato tentato di dettare due righe per diffidarli tutti, ma poi aveva deciso di evitare: sarebbe stato anche quello un modo per entrare in una logica politica. E li aveva lasciati dire.

Quando Conte si dimise, lo chiamò Giorgetti per sapere se ci fossero novità, e lui: nessuna. Poi tornò alla carica Renzi, che voleva parlare. Lui rispose che potevano parlare solo del tempo. Ma quello attaccò bottone su un governo di larghe intese e lui tagliò subito corto: non c’erano le condizioni politiche e non era interessato, quindi la smettesse di tirarlo in ballo nei suoi giochi e lo lasciasse perdere. La domenica 31 gennaio, durante l’esplorazione di Fico, quando La Stampa scrisse che Mattarella l’aveva sondato come “piano B” e il Quirinale smenti, lui ringraziò il presidente. Che poi lo chiamò al buio per offrirgli l’incarico solo nel pomeriggio di martedì 2 febbraio, quando Fico dichiarò fallita l’esplorazione per il Conte-3. E lui ne fu sorpreso: Mattarella non gliene aveva mai parlato prima. Però non se la sentì di rifiutare: come avrebbe potuto dire di no al capo dello Stato, in quella situazione? Ma non ci aveva mai puntato, né sperato, né pensato.

E dire che D’Alema, non proprio uno sprovveduto, era uscito da casa sua con tutt’altra impressione. Non quella di essere stato convocato dopo tanti anni per parlare della Cina, ecco.