Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ha 50 anni: “Repressione è civiltà!”

Il 13 febbraio 1970, poco più di 50 anni fa, Giovanni Grazzini, critico cinematografico del Corriere della Sera, recensì così il film di Elio Petri Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, proiettato il giorno prima a Milano:

«Segniamo in rosso questa data: piaccia o meno il film, è la prima volta che il cinema italiano si butta a capofitto sull’ambiente della polizia e che la censura se ne rallegra. Se si pensa alla libertà con cui il cinema americano, da tempo immemorabile, porta sullo schermo poliziotti corrotti e scopre ignominiosi altarini perfino nella Casa Bianca, è difficile negare che l’uscita del film, nonostante la strumentalizzazione che ne sarà fatta, costituisce un importante passo avanti verso una società più adulta, tanto sicuro di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri senza doversi continuare a difendere dietro il medievale paravento del reato di vilipendio».

Grazzini fu uno dei tanti a restare colpito da quel film, diretto da Elio Petri e interpretato da Gian Maria Volonté, lui nei mesi successivi avrebbe vinto il Gran premio della giuria di Cannes, il film vinse il premio come miglior film straniero agli Oscar. Come ben intuì Grazzini, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto fece in effetti molto parlare, non solo tra chi si occupava di cinema, perché era senza dubbio un film politico, che tra l’altro arrivò nelle sale due mesi dopo la strage di Piazza Fontana.

Ma Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto fece parlare e si fece apprezzare anche perché era un film con una storia, di cui era interessante stare a vedere come andava a finire: un film poliziesco, un thriller, seppur atipico. E anche un film capace di essere metaforico e di andare quindi oltre al suo periodo storico, resistendo al passare degli anni. Sempre Grazzini ne evidenziò infatti «l’angoscia storica espressa in forme di paradosso», secondo lui «accentuata dalla struttura narrativa, da quell’aprirsi e chiudersi del film su toni grotteschi (il delitto iniziale, il rinfresco sul finire) che stringe in una tenaglia di sarcasmo il cuore realistico del racconto».

Come scrisse Vincent Canby sul New York TimesIndagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto seppe fondere «la suspence del melodramma alle questioni morali di una rabbiosa satira». Due cose che raramente, soprattutto in Italia, erano andate di pari passo.

Il protagonista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto – chiamato sempre “dottore” e mai per nome o per cognome – è un poliziotto che è appena stato promosso dalla squadra omicidi all’ufficio politico. Proprio quel giorno il “dottore” – insicuro e perverso, in seguito definito un «repressore-represso» e «un uomo tanto apparentemente potente quanto intimamente fragile» – uccide la sua amante, che sa essere anche amante di un giovane anarchico, Antonio Pace, che abita in quel palazzo.

Dopo l’omicidio, il protagonista si premura di lasciare nell’appartamento di lei una serie di indizi che rendano semplice arrivare a lui, sapendo che nessuno lo sospetterà e accuserà. Il film alterna quindi flashback che spiegano la strana relazione tra il protagonista e l’amante che ha ucciso ad altri momenti in cui, di volta in volta, il protagonista cerca di indirizzare o depistare le indagini, tra arroganza e debolezza. Si scopre anche che il giovane anarchico potrebbe accusarlo ma non lo fa, perché capisce che lasciandolo al suo posto potrà ricattarlo.

Il protagonista quindi arriva ad autodenunciarsi e, negli ultimi minuti del film, si immagina che i colleghi, nonostante la sua esplicita ammissione, lo obblighino a dirsi comunque innocente.

Il film finisce con il cittadino al di sopra di ogni sospetto che si sveglia, con la polizia che arriva davvero e con una frase di Franz Kafka, un autore che centinaia di recensioni e articoli avrebbero messo in ogni caso in relazione con il film. La frase è: «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano».

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, dunque, è il film simbolo dello stato deviato, il primo documento di fortissima denuncia sociale che mai come oggi torna di estrema attualità, visto quanto accade soprattutto nella nostra martoriata Calabria. E oggi ne scriviamo perché proprio qualche ora fa un magistrato del quale abbiamo grande stima, Otello Lupacchini, ha inteso riprendere uno dei frammenti più importanti del film, la dichiarazione di intenti del poliziotto corrotto protagonista del film che nell’atto di insediarsi a capo dell’ufficio politico esplode nel fatidico “Repressione è civiltà” ovvero il grido di battaglia di chi non ha nessuna intenzione di arrivare alla verità. Ma ecco il post di Lupacchini.

La lotta alla mafia non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolge tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Così l’hanno sempre pensata i Migliori, condannati, per questo, all’isolamento prima e alla morte violenta poi.

I pessimi, invece, usi coltivare la propria immagine danzando goffamente sui cadaveri dei Martiri, non perdono occasione per ribadire che… “… L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite, l’uso della libertà che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni! Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile! Scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare. A noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!”. 

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