Questo non è un referendum, è un grosso senso di colpa (di Saverio Di Giorno)

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 01-04-2020 Roma Politica Senato - Informativa del ministro della Salute Roberto Speranza sull'emergenza Covid-19 Nella foto L'aula del Senato durante l'intervento di Roberto Speranza Photo Roberto Monaldo / LaPresse 01-04-2020 Rome (Italy) Senate - Report by Health minister Roberto Speranza on the Covid-19 emergency In the pic Roberto Speranza

di Saverio Di Giorno

Il dibattito sul referendum sta regalando momenti meravigliosi. Alla fine dei discorsi, il migliore argomento di chi sostiene il Sì, al referendum è questo: “i parlamentari sono dei parassiti e quindi è meglio levarcene di torno un po’”. È forse il più banale e qualunquista, ma è certamente legittimo, giustificato dalla situazione attuale. Ed è anche quello che regge meglio, perché le altre argomentazioni (risparmio, efficienza ecc.) a ben vedere funzionano poco o non sono dimostrabili. E l’argomento emerge chiaramente da quei bei faccioni degli stessi parlamentari che vengono invitati per dire: “Sì, tagliateci, in effetti non serviamo a nulla”. Salvo poi citare Nilde Iotti o i costituenti come Renzi nel 2016 (in realtà il numero fissato dalla Costituzione non è fisso).

È chiaro che questo non è un referendum, è un grosso senso di colpa. Avviene dopo anni di sgretolamento delle istituzioni, Parlamento in testa, le quali da una parte sono state attaccate ed erose (sia da aspiranti ducetti, sia da un uso assurdo di decreti e altre forme poco parlamentari), dall’altra hanno fatto di tutto per perdere di credibilità e autorevolezza. Quindi, chiunque si segga su quelle poltrone si sente un abusivo che deve cercare di giustificare perché e come è arrivato là. Ora, se fossi un parlamentare voterei con forza no, se non altro per difendere il mio ruolo, la mia categoria. Mi appellerei alla nobiltà della mia funzione, proverei a mostrare la sacralità di un luogo come il Parlamento che non può essere ridotto ad un’accozzaglia di poltrone manco fosse un punto vendite di poltronesofà. Invece no, loro candidamente dicono che ce ne sono troppi ed è giusto tagliarli. Verrebbe da dire: se non ci credi tu, perché dovremmo farlo noi? Anche se lavorano sottobanco per il No.

Come detto, le altre motivazioni a sostegno del Sì convincono meno che questa. Il risparmio: si sarebbe risparmiato molto di più a tagliare vitalizi e stipendi. Questo non lo faranno mai si dirà, quindi meglio di niente. Solo che è davvero poca cosa. Qualcuno ha calcolato un caffè all’anno. E i costi della macchina non derivano solo dal loro numero. L’altro argomento un po’ più corposo è quello dell’efficienza. Accorciare i tempi, migliorare la produzione delle leggi ecc. E qui due righe in più sono doverose. Che qualità e quantità siano in relazione tra loro va provato. Il fatto che ne entrino meno, non comporta che entrino i migliori, anzi sappiamo come (non) viene scelta la classe dirigente e quindi semmai sono questi i meccanismi da riformare; così come non è detto che se sono di meno lavorino più velocemente o meglio. Certo, è indubbiamente vero che se ci sono meno persone da sentire, la discussione dura di meno, ma è come dire gli anziani costano troppo buttiamoli dalla rupe Tarpea. Tutto può essere soluzione, ma la semplicità e la drasticità stridono con la complessità e le sfumature della democrazia. Che piaccia o meno, la discussione è l’anima della democrazia. Tagliare voci è esattamente una delle frasi che disse il primo Berlusconi o l’ultimo Renzi, ma va bene in un’azienda, non in una democrazia … parlamentare.

Che poi si potrebbe anche ribaltare l’argomentazione: se in 945 (con tutti gli assenteisti) non riescono a lavorare bene perché dovrebbero farlo meno persone con lo stesso numero di problemi?  Inoltre, a ben vedere il problema italiano non è fare più leggi, siamo un paese pieno di leggi! (il lodo Alfano si fece in 9 giorni, altro che inefficienza) il problema è farne di migliori e questo con il numero conta poco. Soprattutto tenendo presente che nulla si sa sul numero di commissioni (che sono quelle che poi veramente lavorano), sulle modifiche ai regolamenti, se per ovviare aumenteranno il numero di collaboratori vari. Servirebbe una riforma complessiva, ma anche qui si può dire: è meglio di niente.

E sulla riforma complessiva si arriva all’ultima argomentazione: questo referendum non è pensato come caso isolato, ma solo come miccia per far partire tutta la macchina da riformare. Competenze, leggi elettorali, rapporti con altri organi. Bisogna pur partire da qualche parte altrimenti non si muoverà mai nulla. E qui però bisogna intendersi, perché va bene partire, ma per andare dove? Riformare per ridurre gradualmente il peso del parlamento ed arrivare ad un presidenzialismo (sogno erotico nascosto di ogni presidente che abbiamo avuto)?  Per dare più forza ancora alle regioni togliendo materie allo Stato centrale (e qui si apre un capitolo enorme soprattutto per chi vive al Sud)? Staremmo prendendo un pacchetto a scatola vuota che potrebbe portare ad uno Stato meraviglioso, ma anche allo sfacelo totale. E siamo sicuri che questo governo così debole possa fare tutto il resto del lavoro? Se poi lo devono continuare quelli di dopo? È un azzardo enorme…  ma meglio di niente?

Ancora una volta. Si può avere un referendum “meglio di niente”? Un referendum che ha risultati o scarsi (risparmio) o per nulla certi (efficientamento), ma con perdite però certe. La rappresentatività in proporzione alla popolazione che ora, checché se ne dica, è in linea con i paesi europei moderni, sarà drasticamente ridotta. Il che significa che il Sud esprimerà meno rappresentanti, le zone rurali ne esprimeranno meno e le forze politiche minoritarie (che spesso sono anche le più pulite), avranno molte meno chances, leggi elettorali a parte. Si rimprovera sempre che i parlamentari perdono contatto con il territorio di riferimento, in questo modo sarà impossibile averlo: se ora rispondono a circa 80 mila persone (una media città) poi risponderanno a 150 mila (la provincia di Vibo Valentia). Il potere è uno, la vecchia metafora della torta funziona ancora: se si fanno meno fette vuol dire solo che i commensali restanti avranno fette più grosse da mangiare, con tutto quello che ne deriva in termini di potentati, voti, clientele, privilegi.

E poi non è meglio di niente, perché non c’è il niente. C’è questo sistema che miracolosamente, come diceva Gaber, nonostante sia in mano a corrotti e incapaci e nonostante stia creando degli squilibri enormi (tra Nord e Sud, tra giovani e anziani) e distruggendo i suoi tesori, tante volte ha impedito – proprio tra i suoi mille lacciuoli, trappole e discussioni parlamentari – di rimanere succubi di personaggi in preda a crisi di onnipotenza come sono stati i vari Berlusconi, Renzi e Salvini che hanno sempre visto nel Parlamento il loro più grande ostacolo. Se a queste persone stava antipatico, allora proprio cosi brutto non è. In soldoni, se il problema sono questi rappresentanti, invece di avere sempre gli stessi ma un po’ di meno, non sarebbe meglio averli tutti quanti ma diversi votandone di migliori o magari impegnandosi in prima persona?