Signore e signori, ecco il partito di Minniti

L’Espresso di questa settimana dedica una grande inchiesta a Marco Minniti e al suo “partito” in divenire. C’è l’editoriale di Tommaso Cerno, nel quale si legge chiaramente la volontà del “pelato” di cavalcare la tigre destrorsa degli italiani con la sua indicazione a rappresentare un classico premier di transizione per evitare derive avventurose. C’è la biografia di Marco Damilano, a dire il vero un po’ lacunosa soprattutto con riferimento ai trascorsi minnitiani per il ponte sullo Stretto (ci premureremo di fargli arrivare i nostri articoli, passati e presenti). E ci sono finanche i nomi e i volti degli appartenenti al “partito di Minniti”, che vanno dal capo dello stato agli apparati di polizia, carabinieri e servizi segreti e finanche a quelli della chiesa. Insomma, un bel quadretto di “gentaglia”. Al quale, statene certi, molto presto, si aggregherà quel chiacchierone di Gratteri, politicante mascherato in attesa come un questuante di un posto di ministro o di presidente della Regione. Povera Italia e povera Calabria nostre!

Ma ecco l’editoriale. 

di Tommaso Cerno

Renzi sembrava avere perso il filo del Pd quando – improvviso solo all’apparenza – è spuntato Marco Minniti. Il ministro dell’Interno voluto da Gentiloni e Mattarella, che senza twittare s’è preso la scena e recita un inedito monologo, la parte principale del melodramma di governo: “Vincerò” la sfida della grande migrazione. Ti aspetti un tenore, se fan fede gli studi alla scuola Pci, ma di lui colpisce invece il timbro grave e robusto da baritono: il pugno di ferro, il tirare dritto, l’impressione di una svolta.

È questo a dividere il Paese e i democratici, rendendo superato perfino il dibattito “Renzi sì-Renzi no”, che ormai sembrava l’unica ragion d’essere del centrosinistra.

Perché Minniti fa un tale effetto? La risposta più semplice è che sia stato lui il primo a occuparsi davvero del tema rovente, la sicurezza dei cittadini immersi nella paura globalizzata del diverso, di quell’ondata che nessuno sembrava governare. Ha sostituito a un certo fatalismo del Pd (che alimentava la destra di Salvini e i più populisti del M5s) la ragion di Stato, l’azione. Ha messo le mani dove nessuno aveva osato con un motto semplice ma divisivo a sinistra: passare dall’avere paura al non avere paura.

Dire che Minniti abbia prodotto un effetto concreto è scontato. Tutti noi abbiamo la percezione che qualcosa sia cambiato. Ma al tempo stesso ci sorge un dubbio: è cambiato in meglio? Questo dubbio è lecito, in quanto resta aperta una questione sostanziale, che non riguarda i pilastri delle politiche del Viminale, ma il basamento culturale sopra cui questi poggiano. Mentre il ministro è tirato per la giacchetta da destra a sinistra, la domanda senza risposta è quali siano i valori su cui il piano di intervento nel Mediterraneo si fonda. Se cioè dietro alla capacità di “ripulire” i mari da carrette e scafisti, al punto da imporre alle Ong le guardie armate a bordo, di trattare con l’Egitto di al-Sisi e rimandare al Cairo l’ambasciatore ritirato dopo l’omicidio Regeni, Minniti abbia presente il prezzo altissimo che questa fase del suo progetto ci porta a pagare: migliaia di vite umane in pericolo sulle nuove rotte del deserto. Il business dei lager libici si sta infatti sostituendo alla tratta, criminale altrettanto, di esseri umani.

Vi è cioè la necessità, dopo l’intervento di polizia, di una grande operazione internazionale in Africa, luogo da cui milioni di donne, bambini e uomini disperati fuggono per inseguire il diritto a un’esistenza, una vita o qualcosa che le somigli. Ecco il punto: se Minniti progetta anche questo, con l’Europa e l’Occidente, o ciò che ne rimane, scorgeremo presto gli aspetti ancora in ombra del suo agire. Aspetti fondamentali per darne un giudizio politico. Per capire se abbia captato qualcosa nella pancia del Paese, ma si sia limitato a fornire una risposta di destra, dando quindi una mano a loro, o abbia fatto un passo verso l’isola che sembrava non esserci, l’emancipazione della sinistra, finalmente capace di coniugare ciò che sembra un ossimoro: sicurezza e politiche umanitarie.

La capacità e il dovere di tenere insieme l’interesse nazionale e le necessità di un Paese esausto, che vuole sentirsi protetto dallo Stato, con i valori inalienabili della Giustizia, la naturale spinta a costruire una società migliore, avanzata, dove non governa la polizia ma il principio di uguaglianza fra gli uomini. Questa risposta ancora non c’è.

Ma dovrà arrivare. Altrimenti il fenomeno Minniti produrrà solo ulteriori spaccature a sinistra, l’ennesima corrente, la solita area elastica che si allunga libera e leggiadra verso la destra. Sprecando la vera occasione: dimostrare al Paese che i progressisti si sono evoluti, perché nel loro dizionario “paura” non ha come sinonimo il nazionalismo o la chiusura, ma una grande alleanza fra paesi democratici per investire nel futuro di un continente strategico com’è l’Africa. E governare così la folle guerra fra poveri, straziante effetto concreto del gridare contro lo straniero e il diverso, contro chi ha meno di noi. Al solo fine di conquistare i voti di rabbia degli italiani. Alla vigilia delle elezioni.