Perché ricordiamo Peppino Impastato

Peppino Impastato

Peppino Impastato lo fecero a pezzi nella notte tra l´8 e il 9 maggio del 1978. Chi lo uccise materialmente, adagiò il suo corpo sui binari della ferrovia di Cinisi, in provincia di Palermo. Ma Peppino Impastato era ancora vivo quando la sua testa giaceva stordita, a causa dei colpi ricevuti, sulle rotaie. Una carica di tritolo fu posta accanto alla sua pelle inerme. Sono difficili e duri da mandar giù i suoi ultimi istanti di vita.

Si fa fatica a deglutire, immaginando le flebili richieste d’aiuto, con la voce rotta dalle violenze subite. I suoi assassini fecero brillare l´esplosivo forse solo immaginando che il giorno successivo la stampa nazionale si sarebbe concentrata solo sul ritrovamento del cadavere di Aldo Moro.

Per i 23 anni successivi, i carnefici di Peppino riuscirono a seppellirne il nome sotto una montagna di merda. Così la chiamava Peppino. La mafia. Quella con la “m” maiuscola. Depistaggi e calunnie. Che uccidono due volte. L’Italia, sublimata dalla tragedia nazionale e dalla lotta al terrorismo, non si accorse (e non lo avrebbe fatto per lungo tempo) della morte di Peppino Impastato.

Era pronta, anzi, a ricevere una ricostruzione di comodo che vedeva Impastato morto suicida o saltato in aria maneggiando dell’esplosivo per un attentato, per assurdo, di natura terrorista. La mattina del 9 maggio 1978 i resti di quel che fu Peppino erano sparsi su 300 metri di macerie, un misto di ferraglie, brandelli di carne, pietre e terra.

Chi era Peppino Impastato lo sapevano i suoi compagni di lotta. Quel ragazzo magro, con gli occhiali e la barba incolta, nato in una famiglia di mafia (il marito di sua zia, Cesare Manzella, era il capo della famiglia mafiosa di Cinisi e suo padre, Luigi, era amico di Gaetano Badalamenti, al vertice di Cosa Nostra prima dell’arrivo dei Corleonesi), non era un eroe solitario. Era certamente una persona sofferente ma volitiva, capace di preferire la giustizia sociale e la lotta, ai legami di sangue. Voglioso di ritrovare nell’opposizione alla mafia la propria ragion d’essere.

Si avvicinò a quella politica che parte dal basso, che faceva della tutela del territorio e della rivendicazioni dei propri diritti una caratteristica inalienabile. Non è un caso che Peppino si fosse avvicinato anche al circolo di Mauro Rostagno, giunto nel trapanese, prima di candidarsi al consiglio comunale di Cinisi con Democrazia Proletaria (5 giorni dopo il suo omicidio ci sarebbero state le elezioni).

Esperienze diverse, quelle di Peppino Impastato, che ne fecero un personaggio scomodo: una persona che denunciava quello che si doveva denunciare era cosa rara: dall’ampliamento dell’aeroporto di Punta Raisi al traffico di droga, passando per gli affari del cemento, in cui imprenditori, politici e mafiosi andavano a braccetto. Peppino denunciava con gli amici, quelli di Radio Aut. Quelli che amavano sentire i suoi scherni rivolti a “Tano Seduto” Badalamenti. Quegli stessi amici che erano alla ferrovia la mattina del 9 maggio 1978, ma a cui fu impedito di avvicinarsi alla scena del delitto. I carabinieri, coordinati dal futuro generale Antonio Subranni, tenevano a distanza solo loro. Poi perquisirono le loro abitazioni.

Nell’appartamento della zia di Peppino, Fara Bartolotta, bastò trovare un frammento di uno scritto risalente al novembre del 1977 per provare la tesi di un suicidio che non stava in piedi. “Era tutto pianificato”, avrebbe raccontato l’allora commissario, Alfonso Vella, arrivato a Cinisi quando i carabinieri stavano già smobilitando.

23 anni sono bastati per rendere Peppino un morto innocente di mafia. 23 anni in cui gli amici, come Umberto Santino e Salvo Vitale, fecero fronte comune con la mamma di Peppino, quella Felicia Bartolotta che non si rassegnò all’idea del figlio ammazzato due volte. Le richieste di indagine rivolte al magistrato Rocco Chinnici, che abbracciò l’anima di Peppino come fosse suo figlio.

Le archiviazioni, nel 1984 e nel 1992, furono ostacoli superati solo da quell’inchiesta del 1995, che avrebbe portato alla condanna all’ergastolo di Gaetano Badalamenti nel 2002, mentre l’anno prima, Vito Palazzolo, suo braccio destro, rimediava trent’anni di prigione. Il collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, ha dichiarato: “Secondo quanto ho appreso dal vice rappresentante della nostra famiglia, Vito Palazzolo, l´omicidio è stato voluto da Gaetano Badalamenti ed eseguito da Francesco Di Trapani e Nino Badalamenti”.

Entrambi, all’epoca del procedimento, erano già morti. Badalamenti, che si trovava già in carcere per il reato di traffico internazionale di droga, sarebbe morto due anni dopo la condanna per l’omicidio di Peppino, il 30 aprile 2004. Pochi mesi dopo, il 7 dicembre dello stesso anno, sarebbe morta anche Felicia, la mamma di Peppino.

Perché ricordiamo Peppino Impastato? Forse per quel senso di ammirazione che proviamo per quel ragazzo che oggi è considerato alla stregua dei martiri? Perché non lo ascoltammo da vivo e siamo ancora arsi dai sensi di colpa? Perché un libro ed un film, “I Cento Passi”, hanno permesso che quella sua storia, simile ora a leggenda, venisse diffusa in tutta Italia?

La casa di Peppino e di Felicia, dopo il successo cinematografico, fu presa d’assalto, divenendo meta di pellegrinaggio per molti giovani affascinati da quella figura eroica prematuramente scomparsa. “Mi piace parlarci – diceva Felicia – perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: questa è siciliana e tiene la bocca chiusa. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise”. Ricordiamo, allora, non il nome di Peppino, ma le sue idee. Le sue conoscenze.

Già, Peppino Impastato sapeva cosa fosse la mafia. Non quella delle coppole e delle lupare. La mafia come potere, come sistema, come connubio con lo stato deviato, come prevaricazione dei diritti dei lavoratori e dei diritti dei cittadini.

Questa era la mafia contro cui si batteva Peppino Impastato. Forse allora occorre ricordare che il “Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato” (a lui dedicato dopo la morte), quest’anno 40 anni. Aveva iniziato le sue attività nel 1977. Insieme a Peppino. Il primo convegno verteva sulla strage di Portella della Ginestra, avvenuta 30 anni prima. Sapere cosa sia la mafia è il primo passo per contrastarla.