Ciao Silvio. Da Scalea a Terni con Nino Cardillo: i derby con l’Ac Talao e le sfide tra i quartieri

Un anno fa ci lasciava la leggenda del calcio scaleota, Silvio Longobucco. Doveroso da parte nostra ricordare in primis il suo percorso calcistico a Scalea, che lo avrebbe portato al calcio che conta con la Ternana, con la Juventus e con il Cagliari. 

Ho avuto la fortuna e l’onore di conoscere di persona Silvio Longobucco. Nel 2007 sono andato a intervistarlo a Scalea per “Campioni di Cosenza”, una collana di ricordi calcistici e Longobucco aveva aperto il suo libro del passato con una passione incredibile. Ne era uscito fuori un bellissimo cameo e oggi che non c’è più, il minimo che io possa fare è rispolverare quell’album. A partire naturalmente dalla sua Scalea. 

“Nel 1965 non avevo neanche 14 anni e giocavo, come tutti i miei coetanei, in mezzo alla strada – ricorda Silvio Longobucco -. C’era una grande rivalità tra i quartieri di Scalea. Io rappresentavo la “mia” Marina e non c’era giorno che non sfidassimo quelli di Fischia, della Stazione, di Cimalonga e di Piazza Vecchia. A notarmi è stato Emilio De Biasi, il mio primo vero maestro di calcio, che mi ha portato nell’Ac Talao, la squadra dalla splendida maglia biancostellata, ovvero la rivale della più “potente” Us Scalea. Con me giocava anche Sandro Pepe, un nipote del mitico Ezio, che fece parte del Cosenza del leggendario Attilio Demaria nel suo primo campionato di Serie B della sua storia, subito dopo la II guerra mondiale, nel 1946-47. I derby che giocavamo tra Ac Talao e Us Scalea in Prima Categoria erano tiratissimi: loro vincevano un po’ di più, ma avevano anche più “santi in paradiso”… Il mio piede preferito era il destro, ma quando avevo una decina di anni mi sono fatto male al collo del piede e per poter continuare a giocare ho iniziato a calciare di sinistro e così sono diventato tutto mancino…Per giocare in Prima Categoria dovevi avere 16 anni e io ancora non li avevo compiuti. Figurarsi se qualcuno non se ne accorgeva: fecero una serie di ricorsi, richiesero il mio certificato di nascita e mi squalificarono. Ma io ormai ero già pronto per andarmene”.

Nino Cardillo è stato uno dei grandi Campioni calabresi e del Tirreno Cosentino in particolare, giocava all’ala destra e aveva una straordinaria tecnica, oltre che un tiro al fulmicotone. Nato a Scalea, classe di ferro 1941 (ha festeggiato 80 anni lo scorso anno), ma poi passato al Diamante che giocava in Promozione, spiccò il volo verso il calcio che conta e giocò in Serie A con il Torino, con il Venezia e con la Ternana. Con i rossoverdi fu grande protagonista di due splendide promozioni in Serie B e in Serie A e chiuse la carriera da capitano proprio nell’Olimpo del calcio nel 1972-73 quando Longobucco vinceva il suo secondo scudetto con la Juve.

Il primo Cardillo che cerca di portare al Nord Silvio Longobucco però non è Nino. “No, era suo fratello Osvaldo, che risiedeva ad Asti. Mi venne a prendere a Scalea e andammo insieme a Torino, al “Filadelfia”, per un provino col Toro, dove Nino aveva già giocato qualche anno prima. Giocavo d’istinto, mi presero subito: visite mediche, scelta della scuola e così via. Ma io non ero convinto per niente: mi mancava Scalea. Non ero mai uscito fuori da casa. Quattro giorni e sono scappato. Ma ho rinviato la partenza solo di qualche mese”.

Nino Cardillo convince la famiglia di Silvio Longobucco a mandarlo a Terni. Siamo nel 1968. “Nino è stato eccezionale. Avendo capito le mie difficoltà ad ambientarmi in un’altra città mi stava sempre vicino. E poi è stato determinante nel giorno cruciale del mio provino. Siamo andati a Sangemini, campo in erba, velocissimo, bello. Io non avevo mai giocato sull’erba, nemmeno per scherzo… Avevo un paio di Superga di gomma e scivolavo quasi a ogni scatto; ero disperato. Allora Nino chiama Gianni Corelli, che all’epoca lavorava a Terni, ed escono fuori un paio di provvidenziali scarpe chiodate. Mi metto a correre, dimostro che sono veloce, che tocco bene il pallone e che so marcare l’uomo: insomma faccio vedere che sono un terzino già pronto per giocare e mi prendono. E questa volta non scappo”. Il tempo di giocare un anno e mezzo con la “Primavera” e con la “De Martino” e nel 1971 l’allenatore Serafino Montanari (che aveva già tenuto a battesimo nel 1962 l’esordio in Serie A con la Spal del paolano Alfredo Ciannameo, ndr) lo lancia in prima squadra in un Varese-Ternana.

“Mi ricordo che c’era la Rai. Capirai, arbitrava addirittura il mitico Concetto Lo Bello di Siracusa… In campo invece dovevo marcare Roberto Bettega, che era in prestito al Varese e veniva dal settore giovanile della Juventus. Vinsero loro, ma io giocai molto bene. Ormai ero un calciatore professionista e non avevo ancora 20 anni”. Sei partite il primo anno, addirittura 28 il secondo, titolare fisso insieme allo stesso Cardillo. Il massimo della vita.

“Con Nino, naturalmente, siamo sempre andati d’accordo. Era lui, insieme al nuovo allenatore Corrado Viciani (che l’anno dopo avrebbe portato la Ternana in Serie A), che mi spingeva a fluidificare, a provare l’avventura in avanti. Giocavo sempre meglio e molti osservatori mi cercavano e mi segnalavano. L’anno dopo sarei passato alla Juventus. Cardillo? L’avrei incontrato in campo, da avversario, nella stagione 1972-73, Lui giocava da ala destra e io da terzino sinistro. Dissi al mio allenatore Vycpalek che mi sentivo in soggezione, che avrei preferito non marcarlo e mi beccai un cazziatone. Mi disse che dovevo essere più tosto con lui che con gli altri e che non dovevo mischiare la professione con gli affetti e aveva ragione”. (g. c.)