Crotone, il villaggio che non può alzare la testa

E’ bella Crotone, e calda. Nei giorni d’estate, e qui l’estate è lunga, il mare è uno specchio immobile. La spiaggia lava bollente. Il sole batte sui muri delle case che sono sbiaditi fino ad avere tutti lo stesso colore. Se esci alle due di pomeriggio senti il vero rumore del silenzio: pochi alberi e radi, saracinesche chiuse, caldo. Non un anima in giro. Potresti sentirti padrone del mondo, protagonista del tuo destino.

Sembra bella Crotone, poi ti accorgi che lo specchio del mare è grigio, che la sabbia di lava è costellata di rifiuti, che sui muri trovi osceni graffiti scoloriti, sui marciapiedi spazzatura che se sei fortunato e c’è un soffio di vento ti rotola di fronte.
Che quando piove è torrenziale, e la melma sale dai tombini oppure scende a valle da città più grandi e ricche, e ti sommerge.
Che tutto è immobile, da decenni.
Potresti sentirti protagonista del tuo destino, se non sapessi che, chiuse le fabbriche, le grandi fonti di lavoro rimaste sono una grande società di Call Center ed una clinica, e nel pubblico la locale Azienda sanitaria.
Il resto sono negozi che chiudono spesso e riaprono in un altro posto, ristoranti stagionali, bancarelle abusive.

Si vive come un piccolo villaggio messicano, con il tenente Garcia, Don Diego, il servo muto (ma non sordo) Bernardo, e i nobili Caballeros.
Uno di quei villaggi dove il potere è in mano a una manciata di antiche famiglie.
Capita che una scuola abbia il cognome di un primario dell’Ospedale che è anche Capo Dipartimento, Presidente dell’Ordine dei Medici da più di venti anni, eletto dai quattro Caballeros riuniti in seduta una volta l’anno, e ad anni alterni uomo dell’anno nel giornaletto locale. Capita che il Presidente non tolleri le critiche, e che sia molto permaloso.
Capita che un medico/imprenditore/affarista proprietario di una clinica odontoiatrica convenzionata sia anche proprietario di aziende casearie, vinicole, agriturismo e infine titolare della clinica che da qualche mese è il fiore all’occhiello della Sanità nel paesotto, sulla quale stanno per piovere milioni di freschi pesos per i poveri peones malati, e che il riccone sia marito di una ex politica in ascesa, ora fuori dai radar.

O che un “sergente” di provincia sia grande amico dell’ASP e che debba un favore ad un anziano collega in pensione, e che non abbia scrupoli a organizzare, proprio come Garcia, un agguato ai nemici degli amici. Nulla di grave, fanno tutto loro: lui presta la divisa, si fa vedere in giro e lascia andare un po’ di notizie.
E capita che questo lo sappiano tutti, e che questo sia normale.
Il paese gira e rigira intorno agli stessi cognomi, agli stessi personaggi ed alle stesse abitudini, che non sono solo tollerate, sono DOVUTE.
Come una di quelle commedie americane in cui il maggiordomo che apre la porta si allontana e ritorna vestito da cuoco per prendere l’ordine della cena e il giorno dopo pota le rose in tenuta da giardiniere.

Rompere il cerchio magico è impossibile. La forza dei signorotti locali e dei loro vassalli sta nella reciproca protezione, nel conoscere l’uno le magagne dell’altro, nel patto del silenzio.
A volte, se il lavoro da fare è sporco, si può chiedere aiuto alla “capitale”, di cui il villaggio è sempre stato una colonia.
Dalla capitale viene chi non è abbastanza blasonato da rimanerci, e mantiene sempre la nostalgia per quel posto fatato, col suo vento e i suoi ponti, che per l’esule è il posto più bello del mondo. Se mai ritornerà, dirà quanta luce ha portato nella terra di nessuno.

Il villaggio non può alzare la testa. E’ il suo destino di colonia. E se ci prova vengono chiamate in aiuto piccole figure che ai locali sembrano giganti.
Cuochi di bettole che giudicano chef stellati, giocatori di serie C che pontificano sul campionato maggiore, chirurghi da appendicite che relazionano su argomenti che conoscono dai libri, dirigenti rifiutati altrove che si gonfiano e fanno la ruota perché qui, chi può smentirli?
Ma tutto serve ai feudatari del villaggio.

1 – (continua)