La democrazia e il ceto politico calabrese (di Carlo Cuccomarino)

(foto corriere della sila)

L’altra Cosenza, la città ribelle che non si è mai piegata ai compromessi con la politica e il malaffare, piange oggi la scomparsa di Carlo Cuccomarino. Attivista e militante fin dagli anni Settanta, sempre in prima linea nelle battaglie a difesa degli ultimi, Carlo è stato anche tra i fondatori di Radio Ciroma (che ha interrotto la programmazione alla sua memoria) e dell’Associazione Sud Comune. Aveva 68 anni. Era stato ricoverato in ospedale per il Covid ma era stato dimesso ed era tornato a casa da qualche giorno, dove purtroppo è deceduto la notte scorsa. Più volte noi di Iacchite’ abbiamo pubblicato le sue riflessioni sul degrado della politica calabrese e oggi è doveroso ricordarlo proprio con uno dei suoi articoli più incisivi. Ciao Carlo, un grande abbraccio a tutti i tuoi familiari. 

di Carlo Cuccomarino 

LA DEMOCRAZIA E IL CETO POLITICO CALABRESE

Su quali responsabilità ha sullo sfasciume calabrese della crisi attuale la funzione e il ruolo dello stesso ceto politico, hanno sciolto da molto tempo ormai ogni residua ambiguità.
Il ceto politico calabrese è qualcosa di più che una forza interclassista dal programma neoliberale: è l’espressione diretta degli interessi e dei gruppi di potere locali e del capitalismo italiano.

Questo ceto non svolge più opera di mediazione tra i gruppi economici e la grande massa di cittadini o tra le varie classi, al suo interno è costantemente impegnato nella lotta per la propria conservazione e ascesa nei ranghi più alti del potere istituzionale.

Tale uniformità di ruolo ha investito e caratterizza in varia misura tutte le formazioni, avendo ridotto in pochi decenni il profilo che li caratterizzava e cancellando definitivamente l’antica geografia destra/sinistra.

Una delle grandi novità politiche delle democrazie occidentali oggi è la scomparsa dello scenario della figura storica del partito di opposizione. All’opposizione sociale e classista è subentrata una opposizione elettorale. La competitività fra partiti che rendeva la democrazia rappresentativa più dinamica è diventata una semplice gara elettorale, fondata su una diversità di messaggi pubblicitari e non su una competizione di strategie.

I partiti oggi filtrano i bisogni, le istanze sociali, ma solo nel quadro di compatibilità delle proprie convenienze da ceto. Non hanno più obiettivi di trasformazione delle strutture della società.

Il PD, il partito renziano, è l’espressione diretta oggi di quanto cerchiamo di dire. Diradati i fumi della rottamazione di fatti riusciamo a vedere meglio i committenti: banche, fondazioni, gestori di rete pubbliche e private trasformate in spa, società energetiche, sviluppatori immobiliari, secondo le varianti locali cooperative, manager di imprese globali, industriali medi.
Al loro fianco i gruppi editoriali, i baronati universitari e la corte di agenti del consenso che ogni sistema necessariamente ingaggia.

Nelle città, comprese dunque quelle meridionali, il PD è promotore di partnership per la crescita urbana, bonifiche di quartieri degradati, folklorizzazione turistica dei centri storici, attrazione di investimenti e talenti, grandi eventi e grandi opere.

Strategia questa che ha il consenso delle classi medie meno colpite dalla crisi, delle alte professioni e di parte dei giovani con alta scolarità che ci vedono possibili canali di valorizzazione.
Il “blocco” che si riconosce nel PD, si basa, dunque, sull’alleanza tra elite, frazioni affluenti di ceto medio, settori socio-professionali che si percepiscono come leading class in formazione.

Oltre questo agglomerato i “pagamenti collaterali”: gli 80 euro, il regime forfettario per le partite Iva, incentivi per l’innovazione. Il tutto per tenere agganciati di volta in volta salariati, precari e lavoro autonomo.

Riepiloghiamo dunque quanta responsabilità c’è del ceto politico calabrese sullo sfasciume della crisi che stiamo vivendo (siamo quasi ad un decennio) e cosa questa ha aggiunto nella già debole geografia sociale e politica della nostra regione.

Innanzitutto il fatto che il ceto politico calabrese del nostro tempo, quel che appare oggi come un pezzo di medioevo politico, in realtà costituisce un settore particolare delle èlites nella società capitalista contemporanea, che vive esclusivamente di politica, e trae da essa reddito e potere.

Questo ceto politico non svolge più compiti di mediazione tra i gruppi economici e le grandi masse dei cittadini. Lo vediamo semmai costantemente impegnato nella lotta per la propria conservazione e ascesa nei ranghi più alti del potere istituzionale.

E’ questo ceto politico a noi contemporaneo che ha svuotato “l’intima essenza della politica” così come la conoscevamo.

Esso è stato ed è portatore, nei fatti, della politica alle “libere forze del mercato”.

Com’è noto, quest’ultime sono oggi incarnate sopratutto da un potere enorme, invisibile e sovranazionale: quello della finanza.
Gli esiti di questa “subordinazione politica” ci hanno gettato in una condizione inedita.
Gli anni di gestione della crisi attuale, di fatto, mostrano l’assoluta incapacità dei governi nazionali e regionali di riduzione del potere della finanza.

In Calabria, come nel resto del nostro paese, i partiti politici e il ceto politico che li compone si presentano oggi come complici e responsabili di questa crisi senza fine che mette sotto pressione strati e gruppi sociali regionali che indietreggiano di anno in anno. 

In Calabria la povertà diventa miseria e generazioni di giovani sono messe ai margini, la precarietà del lavoro diventa regola e va a sommarsi a quella cronica, costituita dal lavoro nero.

Nulla di tutto ciò sfiora il ceto politico calabrese: esso in questi duri anni di crisi economica e sociale appare ben saldo al potere e mantiene più o meno intatti i suoi inauditi privilegi.
Ed è veramente paradossale che mentre a coro unanime questo ceto politico insieme a quello dei media esortano al cambiamento, alla mobilità, alla flessibilità, il nostro consiglio regionale è affollato dallo stesso ceto politico che siede sui suoi scranni da decenni ormai.

Se c’è un dato che i calabresi hanno afferrato è che questo ceto politico appare inetto a porre rimedio ai grandi problemi in cui la nostra regione si dibatte in questi duri anni di crisi.

Ma è questo ceto politico, esercitando tale inettitudine, a difendere efficacemente quelle strutture di potere che ci costringono alla miseria di cui parlavamo prima.
E’ facile comprendere che man mano che la stretta sociale ed economica andrà peggiorando, la vita di tutti noi calabresi potrà incanalarsi in una inedita rabbia sociale e diventare dinamite politica.

E allora la domanda è: come possiamo tutti noi, gli strati colpiti dalla crisi, la maggioranza impoverita, i precari tutti, far male a questo ceto politico come una priorità?

Intelligenza popolare, dispersa e frammentata quanto si vuole ma non fuorviata da un ceto politico di merda che si fa complice nel taglio di salari e redditi, che ci fa spendere di più per curarci e mantenere i nostri figli agli studi, che ci toglie i risparmi per salvare banche, istituti e aziende fallimentari e avvelena con sistematicità e complicità inaudita i nostri territori.

Questo ceto politico che ha discreditato la politica e indica la trasformazione della società come immodificabile non può non essere che il nostro nemico.

Oggi non c’è altra via che mostrare la distanza che ci separa da questo ceto politico e dal suo modo di intendere e fare politica.