Rende. Covid call center: ecco cosa sta succedendo a Comdata

+++ COVID CALL CENTER +++
Riceviamo e pubblichiamo una testimonianza diretta pervenutaci da alcuni operatori del call center di Rende dove, notizia recente, è stato scoperto un focolaio Covid-19. Ci raccontano le problematiche e le tensioni dovute a problemi di sicurezza sul lavoro aggravate dalla gestione del personale in un momento di pandemia. Tra smartworking e lavoro in presenza qualcosa non ha funzionato…
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A marzo 2021, dopo un anno in pandemia mondiale, e l’invito a tutte le aziende di favorire al massimo lo smartworking, ci sono aziende che non hanno ancora chiaro il concetto, che mettono al primo posto il loro profitto a danno della salute dei propri dipendenti e relativi familiari. Accade in Comdata Rende, che i lavoratori con contratto a tempo determinato, con il ricatto morale del mancato rinnovo contrattuale in scadenza, non abbiano opportunità di scelta e siano dunque obbligati a lavorare in azienda e non da casa. Accade anche che lavoratori assunti a tempo indeterminato, che svolgono il proprio lavoro da casa ormai da quasi un anno, vengano “invitati” a recarsi in sede a lavorare, con una turnazione rotatoria della durata di due settimane per ciascun gruppo, con la garanzia di andare a lavorare in sicurezza, quando potrebbero senza problema alcuno continuare a lavorare da casa come hanno fatto nell’ultimo anno.

Questa utopistica sicurezza che viene loro garantita però dura veramente molto poco, poiché, complici forse anche le ormai numerose varianti in circolazione di Covid-19, alcuni lavoratori risultano essere positivi a tampone rapido nel corso dell’ultima settimana di febbraio. Nel frattempo non si capisce bene se tali lavoratori non abbiano prontamente avvisato l’azienda e i colleghi della propria positività al virus, o se l‘azienda non abbia provveduto ad attivare i protocolli nei tempi giusti, poiché, martedì 2 marzo, improvvisamente questi contagi diventano 8. Nel frattempo sempre più persone sono preoccupate e ripercorrono nella loro mente ogni movimento fatto sul posto di lavoro, si chiedono se hanno sempre igienizzato le mani dopo aver toccato qualsiasi cosa o se hanno abbassato per sbaglio la mascherina in presenza di altri colleghi.

Sempre in data 2 marzo l’azienda comunica ai dipendenti che il giorno successivo sarebbero stati allestiti dei punti di raccolta all’esterno dell’azienda per effettuare il tampone a coloro i quali avessero frequentato il posto di lavoro negli ultimi giorni. Questi ultimi giorni per poter aver diritto a sottoporsi a tampone però sostanzialmente sono solo il lunedì 1 e il martedì 2 marzo. Successivamente, in seguito a controllo, viene disposta la chiusura della sede e relativa sanificazione nella notte, quindi la raccolta dei tamponi predisposta per il 3 marzo va a monte e si comunica ai dipendenti che seguiranno comunicazioni da parte dell’azienda e/o dell’ASP. Ad oggi, 4 marzo 2021, non tutti i dipendenti presenti in azienda nei giorni incriminati sono stati contattati da anima viva. Qualcuno dice che sono stati dati all’ASP solo i contatti delle persone presenti in sede il 2 marzo. Qualcuno dice che sono stati dati solo i contatti delle persone che hanno frequentato il primo piano della struttura (nella quale è presente la sala che ospitava i lavoratori con tampone positivo), mentre non sono stati dati i contatti dei lavoratori che invece prestano servizio, per altre commesse, al piano terra.
Qualcuno dice… di certo? Il nulla.

Le voci che girano tra i lavoratori preoccupati sono tante, comunicati ufficiali da parte dell’azienda solo uno, e molto vago, nel quale si comunica ai lavoratori presenti in sede “di recente” di essere in quarantena preventiva e che a breve saranno contattati dagli organi competenti per effettuare il tampone molecolare. Qualcuno chiama l’ASP del proprio comune, che ormai è a conoscenza del “call-center focolaio”, per chiedere se il proprio nominativo è presente nella lista dei dipendenti comunicata dall’azienda, essendo stato presente in sede nei giorni incriminati, e si sente dire che il proprio nominativo non c’è. Qualcuno si reca a fare il tampone di sua iniziativa non sentendosi tranquillo. Qualcuno aspetta di essere contattato, ma il telefono non squilla. Altri lavoratori presenti in sede fino al venerdì 26 febbraio non vengono neanche presi in considerazione.

Ci si chiede dunque se, dopo un anno in cui si combatte contro un mostro invisibile, se è giusto continuare a mettere a rischio la sicurezza altrui per esigenze che non esistono in quanto possono essere perfettamente soddisfatte da casa. Se è giusto giocare con la vita della gente per colpa della leggerezza delle proprie azioni. Se per esigenze aziendali e di profitto (in un anno garantite comunque a domicilio), sia corretto esporre i propri dipendenti ad un rischio inutile. Oltre il danno poi, anche la beffa, in quanto più persone stanno mettendo in circolo nelle ultime ore la fake news che tali contagi siano avvenuti ad un pranzo (all’aperto) tra alcuni dipendenti; forse per scaricare l’azienda di eventuali responsabilità che altrimenti avrebbe.

Ma dopo un anno trascorso chiusi tra le mura domestiche, ad acconsentire a molteplici e quotidiane richieste di ore di lavoro straordinario, visite a familiari fatte con il contagocce e sempre in sicurezza, spese fatte a domicilio, cene “fuori” solo da asporto, e innumerevoli sacrifici che tutti siamo stati chiamati a fare, che ci si debba anche sentire presi in giro da qualcuno che dichiara di garantire la per la sicurezza dei lavoratori, avendo in mano una grande responsabilità, e che invece espone i propri dipendenti e i relativi affetti ad un rischio perfettamente evitabile con un pizzico di buon senso e rispetto nei confronti delle vite altrui, onestamente, non è proprio più in alcun modo accettabile.